Se oggi ancora si dibatte sul tema del rapporto tra donne e politica, è perché la presenza femminile non è ancora percepita come un problema.
Recentemente, il segretario generale del Consiglio d’Europa, Terry Davis, ha denunciato, sulla base di un rapporto del settembre 2008 della commissione per le Pari opportunità, l’inadeguatezza della rappresentanza femminile, giudicata tanto ingiusta quanto inefficiente: «Privarsi del contributo determinante della donna nella vita pubblica, quindi della sua intelligenza e sensibilità, pregiudica lo sviluppo economico e sociale del paese. Ecco perché, nell’interesse della democrazia e del progresso, dobbiamo impegnarci perché le donne abbiano maggiore potere decisionale, sia nei parlamenti che nei governi».
Ma ancor prima che un problema di impoverimento della qualità democratica di un paese, a nostro avviso quello della limitata presenza delle donne nello spazio politico e in particolare nelle posizioni «che contano» costituisce un problema di diritti individuali: se nella popolazione complessiva vi è circa un cinquanta per cento di donne, il fatto che in molti paesi questa percentuale crolli verticalmente se si analizzano le assemblee elettive e gli esecutivi significa inequivocabilmente che esiste una discriminazione, a meno che non si voglia sostenere che esistano una inadeguatezza o un disinteresse «genetici» delle donne rispetto alla politica.
I meccanismi della discriminazione operano in diversi ambiti, dalla cultura del paese alla struttura familiare e sociale e sono tanto più efficaci quanto meno il sistema del welfare va in aiuto alla donna rispetto all’esercizio dei suoi compiti più «tradizionali». Ma accanto a questi meccanismi di discriminazione che condizionano la presenza femminile in ogni ambito pubblico e lavorativo, ve ne sono altri, più prettamente politici, riconducibili alle «resistenze» opposte dagli insider, che in quasi tutti i paesi europei, fatta eccezione per le democrazie scandinave, sono in larga misura maschi.
Italia, un paese ancora poco virtuoso con le donne in politica
Resistenze che potranno essere più o meno efficaci a seconda dei meccanismi di cooptazione e di scelta dei rappresentanti che operano all’interno del sistema politico; a questo proposito è stato osservato come un sistema elettorale proporzionale sia tendenzialmente più favorevole alle donne rispetto a un sistema maggioritario con collegi uninominali, ma anche come, al tempo stesso, un sistema proporzionale con liste chiuse, ponendo totalmente nelle mani dei vertici dei partiti la scelta dei candidati, possa costituire un efficacissimo strumento di limitazione della rappresentanza femminile. L’Italia, nel suo comportamento poco virtuoso – anche se dei piccoli passi avanti sono stati fatti – è certamene in buona compagnia. Con la sua bassa percentuale di donne elette alla Camera dei deputati (21,3%) supera la Francia (18,5%), che ha però più senatrici, e il Regno Unito (19,7%), anche se è nettamente distanziata da altri paesi come il Portogallo (28,3%), la Germania (31,6%), l’Austria (32,2 %), il Belgio (34,7%), la Spagna (35,1%), i Paesi Bassi (36,7%) e tutti i paesi scandinavi (dal 36,9% della Danimarca al 47,3% della Svezia).
Ma se si guarda alla partecipazione agli esecutivi, l’Italia, insieme a Grecia e Portogallo, fa una ben magra figura anche rispetto a Francia e Regno Unito e soprattutto conferma la tradizione di attribuire alle poche donne ministro ministeri di scarsa rilevanza, solitamente senza portafoglio, oppure ministeri tradizionalmenti “femminili”, come l’istruzione. Donne a capo di ministeri come quelli degli interni, dell’economia, del lavoro, della difesa, sono una realtà in paesi geograficamente e culturalmente vicini a noi come la Francia e la Spagna, ma solo un’illusione in Italia, dove naturalmente non è nemmeno pensabile avere una donna a Palazzo Chigi. In alcuni paesi europei sono state adottate misure di discriminazione positiva per far fronte alla scarsa presenza femminile nelle istituzioni politiche, anche se vi sono esempi, come quello spagnolo, che mostrano che è possibile ottenere risultati soddisfacenti anche senza costrizioni legali: qui è grazie all’autonoma iniziativa dei due maggiori partiti che le donne hanno potuto ottenere spazi e ruoli significativi.
La scarsa sensibilità mostrata fino ad oggi dai politici italiani ci fa dubitare che qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Spagna si possa verificare anche da noi. Dopo le limitate misure adottate a livello locale e per la Camera dei Deputati nel 1993 e poi bocciate dalla Corte costituzionale due anni dopo e la riforma costituzionale approvata nel 2003 per assicurare la parità di accesso alle cariche elettive, nel 2005, l’allora ministro delle Pari opportunità Stefania Prestigiacomo tentò di introdurre le cosiddette “quote rosa” nella nuova legge elettorale, incontrando la strenua opposizione di molti politici maschi dei due schieramenti, che mostrarono in quell’occasione uno strenuo attaccamento al fortino dei loro privilegi. Da allora la questione è uscita dall’agenda politica. Ci chiediamo se una così palese violazione, certo non operata per vie legali, ma attraverso meccanismi sociali e comportamenti della classe politica, di un diritto politico essenziale possa essere a lungo tollerata. Forse un partito che oggi è al governo e si fa chiamare Popolo della libertà dovrebbe interrogarsi seriamente.